KARAMA
Gaza, Dignità Sotto Assedio
di Adriana Zega
Faiza e Mansour
Qarara, Khan Younis
Come d’abitudine siedono tutti per terra sul farshe, un materasso sottile. I loro occhi sorridono, sono luminosi e pieni di vita nonostante le difficoltà.
Mansour e Faiza hanno sette figli. Il più piccolo,Yousef, di due anni corre via e va a nascondersi dentro per gioco, lo inseguiamo.
La loro casa è un grande stanzone che hanno costruito dopo la guerra. Da allora la loro vita è stata sconvolta. Vivono come “sospesi” in una condizione temporanea, in attesa di riconquistare una vita dignitosa e normale. Quando chiediamo se hanno speranza per il futuro, Mohammed di 10 anni, anticipando i genitori, risponde prontamente: “Vedremo il nostro futuro, quando avremo ricostruito la nostra casa”.
Intervista:
“Fino al 2000 coltivavamo i nostri cinque dunum di terra. Erano vicini alla linea di confine e gli israeliani ci intimavano di non andare oltre i 300 metri. Dalla Seconda Intifada, è diventato troppo pericoloso avvicinarci alla nostra terra. Vivevamo nella buffer zone a 400 metri dal confine, vicini a un posto di blocco. Ci era rimasto un piccolo pezzo di terra che condividevamo con i miei fratelli dove coltivavamo l’orto per il nostro consumo. Dalla guerra di Piombio Fuso, Israele ci impedisce di tornare. La nostra casa era grande, di cemento e con tante stanze. Non come quella in cui siamo ora. Qui ci sentiamo più sicuri di dove eravamo prima. Ma l’intera Striscia di Gaza è sotto occupazione”.
"La vita nella buffer zone è sempre stata pericolosa. Quando nel 2005, i coloni israeliani hanno lasciato Gaza, non abbiamo sentito la differenza. Ci sentivamo comunque in pericolo. Niente era cambiato a parte la resistenza che dopo il ritiro degli israeliani da Gaza aveva iniziato a fare azioni nell’area di confine. Venivano da fuori, da altre zone, sparavano e se ne andavano. Avevamo paura di entrambi: degli israeliani e della resistenza. L’esercito israeliano sparava all’improvviso, anche quando non c’erano azioni della resistenza. Avevamo paura di uscire di casa e di lasciare in nostri figli liberi di giocare fuori”.
“Mio padre è stato arrestato per la prima volta nel 1969. Si è fatto quindici anni di prigione. Si è ammalato mentre era dentro, aveva sempre un dolore al petto ed è morto due anni dopo essere stato rilasciato, all’età di cinquantacinque anni. Mio fratello di ventitré anni è stato ucciso dagli Israeliani mentre mio padre era in prigione. Ho un’altro fratello, è in prigione, ha quattro figli. L’hanno condannato a otto anni. Quattro anni fa i soldati israeliani hanno fatto un’incursione e hanno arrestato tutti gli uomini della zona. Li hanno rilasciati tutti, tranne mio fratello e un’altro”.
“Anche io sono stato arrestato per un giorno e mezzo. Ci hanno circondato, sono entrati casa per case e hanno ispezionato tutto. Mi hanno ammanettato e bendato. Hanno arrestato più di ottanta persone, incluso un signore anziano che avrà avuto ottanta anni. Ci hanno portato alla base militare di Kissufim, poco oltre il confine. Ci hanno legato le mani dietro la schiena con manette di plastica. Ci hanno obbligato a sederci per terra e ci hanno picchiato sulla ghiaia. Era doloroso. Ci continuavano a chiedere dei gruppi militari e politici: Da dove vengono? Chi sono?”.
“Quando la guerra è cominciata, non ci siamo mossi di casa per nove giorni. Oh mio Dio, eravamo terrorizzati! Ad ogni istante mi aspettavo che avrebbero attaccato, pensavo che saremmo morti tutti lì dentro. I bambini capivano cosa stava succedendo, avevano paura. Il nono giorno della guerra, i soldati ci gridarono di andarcene. Ci urlarono con un megafono “LASCIATE LE CASE IMMEDIATAMENTE” chiamando ogni famiglia per nome. Io stavo lavando i panni nel momento in cui ci chiamarono fuori. Scappammo. Non prendemmo niente, avevamo già i bambini da tenere. Presi solo del pane e dei pomodori. Pensavamo che saremmo tornati presto, in uno o due giorni. Ce ne andammo con altre 60 famiglie, l’intero vicinato. A parte una famiglia che decise di rimanere. Un signore anziano rimase, con suo figlio e i suoi bambini. Un cecchino gli sparò. Dovettero rimanere per due giorni nella casa, con il corpo, prima che l’ambulanza riuscisse a raggiungerli per evacuarli”.
"Abbiamo camminato per non so quanto per raggiungere la scuola dell’UNRWA. La scuola era più sicura, ma avevamo comunque paura dei bombardamenti. Avevamo saputo che avevano colpito la scuola UNRWA di Jabalia con il fosforo bianco.
Siamo rimasti lì per 17 giorni e dopo la guerra ci hanno detto che dovevamo andarcene. Avevamo paura di tornare alla nostra casa, così vicino al confine, era pericoloso. Solo io e mio marito ci siamo andati, dieci giorni dopo la fine della guerra. Ci siamo sentiti così tristi e arrabbiati. Non è stato facile vedere la casa crollata, schiacciata su se stessa. Tutto andato via. Avevamo gli animali: conigli, polli, cani…tutti uccisi. I bulldozer hanno buttato giù le pareti, non è rimasto niente. Non eravamo gli unici, oltre 85 case erano state distrutte come la nostra”.
“Dopo la guerra non è stato facile trovare un posto dove stare fino a che non ce lo siamo costruiti noi da soli. Eravamo in tanti ad aver perso la casa e il prezzo degli affitti era salito. Anche alcuni dei nostri vecchi vicini sono qui intorno. Dovremo ricostruire qui, su questa terra che abbiamo affittato. Non c’è modo di tornare alla nostra vecchia casa”.



